sabato 13 ottobre 2012

La cultura è morta. Il funerale è a Viterbo di Manuel Anselmi | pubblicato per il sito del Fattoquotidiano.it il 22 aprile 2012


Oggi finisce la settimana nazionale della cultura e io ieri ero al Funerale della cultura di Viterbo, sia come rappresentante del Movimento Quinto Stato sia come semplice cittadino. Vedere centinaia e centinaia di persone sfilare per le strade di una cittadina di provincia, manifestando silenziosamente è stata una vera emozione. Soprattutto per chi conosce questa città e questa provincia, così difficili sul piano della promozione culturale. Quello che ho visto era uncordoglio allegro. Un misto di tristezza e di entusiasmo. Tristezza per la chiusura del Cinema Trieste, ennesimo luogo storico che se ne va. Entusiasmo per la reazione condivisa, per l’indignazione collettiva ritrovata, per il fatto che è possibile un fronte trasversale di persone che dica basta alle logiche di impoverimento culturale della città.
“Viterbo si è svegliata!” ha detto Marco Trulli, uno dei coordinatori. È vero. Viterbo può svegliarsi. Una città dormiente per troppo tempo. Troppo disabituata alla partecipazione cittadina e alla rivendicazione sociale, al punto che prima di ieri qualcuno aveva addirittura ipotizzato strambidietrologismi (anticlericalismo, solito antagonismo di sinistra e cose del genere) nel tentativo di spiegarsi il perché di una semplice e sana protesta cittadina. La normalità di una reazione civile ad alcuni sembra ancora un evento anomalo manipolato: e questo la dice lunga sul sonno democratico.
Ma ieri hanno sfilato bambini, genitori, compagnie teatrali, insegnanti,associazioni culturali, provenienti anche dalla provincia. Nessun eversivo, nessun radicale, nessun mangiapreti ( ma poi esistono davvero?). Io ho visto molte persone che non si conoscevano e che si sono conosciute in piazza per condividere una indignazione. Incoraggiarsi. Incazzarsi. Sorridere. E con un solo obiettivo: difendere gli spazi culturali, difendere la cultura della propria città. Ma quale cultura? La cultura  come bene comune e non come privilegio o concessione dall’alto. La cultura quotidiana, quella che forma, le persone, che alfabetizza i cittadini alla musica, al teatro, al cinema, quella dei piccoli cineclub, delle compagnie teatrali amatoriali, dei laboratori per bambini. Che prepara il pubblico, che scopre i talenti. La cultura che prepara il gusto delle persone nella quotidianità, senza guardare all’estrazione sociale, alla nazionalità. La cultura del lavoro culturale silenzioso di operatori umili, assidui e appassionati. Che è l’altra faccia della cultura degli eventi e dei mega festival che troppo spesso servono a legittimare manovre politiche nazionali, che nascono da funamboliche cordate di sponsor, che prevedono il cittadino al massimo in forma di spettatore.
Quello che è successo ieri a Viterbo è della stessa natura di quello che è successo l’estate scorsa al Teatro Valle, poi a Napoli allo Spazio La Balena, e di recente a Palermo al Teatro Garibaldi. Lavoratori della conoscenza che vogliono riappropriarsi dei tradizionali spazi cittadini  per fare il proprio lavoro, per offrire ai ragazzi e non solo, la possibilità di trasmettere le proprie conoscenze, e ristabilire quel sano (e democratico) rapporto tra cittadini e intellettuali. Una città è viva se è degli artisti diceva qualcuno. Una città con teatri chiusi, con musei in degrado, con intellettuali che lavorano altrove come esuli, con sporadici eventi estivi, è una città che muore nei centri commerciali e nei multisala. Consegnando i propri cittadini all’abbrutimento. Per fortuna, da ieri, c’è tanta gente allegra e forte che dice: “ No, grazie. Noi Viterbo la vogliamo diversa, colta, allegra  e colorata”.

P2 e dittatura argentina di Manuel Anselmi | pubblicato per il Fattoquotidiano.it il 23 marzo 2012


Oggi e domani, dopo due anni di lavoro, nell’ambito dell’omonimo congresso, viene presentato nella sede della Facoltà di Scienze della Formazione di Roma Tre il libro Affari nostri diritti umani e rapporti Italia-Argentina 1976-1983, a cura di Claudio Tognonato, edito da Fandango Libri.
Si tratta di una ricerca storica e sociologica che ha coinvolto numerose università argentine e italiane ed ha permesso di ricostruire i rapporti tra Italia e Argentina nel periodo buio della dittatura argentina, che ad oggi conta più di 30000 desaparecidos e che proprio domani 24 marzo celebra il suo anniversario in una tragica concomitanza con l’anniversario delle Fosse Ardeatine.
Il libro vede tra gli autori, oltre a storici e accademici, anche testimoni privilegiati di quegli anni come Enrico Calamai, console italiano negli anni della dittatura, che aiutò numerosi italiani a fuggire e per questa ragione fu rimosso, o come Sergio Flamigni, senatore e studioso delle formazioni eversivedegli anni Settanta. Il libro dedica, infatti, ampi capitoli ai legami tra la P2 di Licio Gelli e il governo dittatoriale argentino. Come spiega nell’introduzione il curatore del volume Claudio Tognonato, professore di Sociologia all’Università degli Studi di Roma Tre “Nel nostro paese sono gli anni d’oro della Loggia P2. Licio Gelli aveva costruito il proprio potere intrecciando interessi italiani e argentini, prima con Perón e López Rega, poi con Massera e la dittatura. La Commissione parlamentare che indagò sulla Loggia massonica segnalò la necessità di approfondire i rapporti internazionali della P2. Noi, consapevoli dell’enorme difficoltà, abbiamo accettato la sfida e abbiamo cercato di fare qualche passo in quella direzione.
Il convegno vedrà, tra gli altri, la presenza di Vittorio Cotesta, Gaetano Dominici, Sergio Flamigni, Enrico Calamai e Giuliano Turone. E avrà un ospite d’eccezione: il giornalista argentino Horacio Verbitsky, autore di numerose importanti inchieste sul ruolo della chiesa cattolica durante la dittatura e celebre per Il volo, libro in cui ha raccolto la prima confessione da parte di un gerarca della dittatura che ha permesso di fare luce sulle tremende tecniche di tortura e sparizione dei dissidenti al regime. E che anni dopo vennero rappresentate nel bellissimo film di Bechis Garage Olimpo.

8 marzo su Internet: processo per stupro di Manuel Anselmi | pubblicato sul Fattoquotidiano il 8 marzo 2012


C’è un video che sta girando in internet durante questo 8 marzo 2012 che merita una considerazione particolare: un estratto Rai delle riprese del primo processo per stupro trasmesso dalla televisione italiana nel 1979.
Nelle testimonianze e nelle voci che si alternano nel filmato ci sono due Italie e due modi di essere socialmente donna: da un lato c’è quello della donna che è tale secondo il “dominio maschile” assoluto dei padri padroni, dei fratelli coproprietari, dei vitelloni e dei playboy alla matriciana, dall’altra c’è la donna che è tale secondo se stessa, secondo la sua volontà, le sue aspirazione, la sua differenza e la sua intelligenza.
Quel processo fu un evento rivoluzionario nell’immaginario sociale italiano, senza se senza ma. Fu una di quelle fratture che fanno bene a un popolo perché fanno pensare, discutere e ragionare insieme. Se il movimento dei neri americani ricorda epicamente Rosa Parks che si rifiutò di lasciare il proprio posto sull’autobus a un bianco, una nuova cultura di genere in Italia dovrebbe ricordare allo stesso modo quel processo. Come il punto di non ritorno di un modo di essere maschi tutto all’insegna della forza.
In quelle immagini in bianco e nero c’è un passaggio di civiltà e per questo va custodito. È quasi commovente, a più di trentanni di distanza, vedere quella che sarebbe diventata poi “l’avvocato delle donne” per eccellenza, Tina Lagostena Bassi, smontare con asciuttezza e determinazione le illogiche argomentazioni del difensore degli stupratori che trovavano fondatezza e coerenza solo nella peggiore mentalità maschilista.
L’idea di mandare in onda sulla Tv di Stato un evento del genere fu, al momento, una scelta di grandissima intelligenza. E fu un’intuizione delle donne. E come riporta Wikipedia “L’idea di documentare un processo per stupro nacque in seguito ad un Convegno Internazionale femminista sulla “Violenza contro le donne”, tenutosi nell’aprile del 1978 nella Casa delle donne in via del Governo vecchio, a Roma. In quel convegno emerse che ovunque nel mondo, quando aveva luogo un processo per stupro, la vittima si trasformava in imputata. Loredana Rotondo, programmista alla Rai, propose a Massimo Fichera, allora direttore di Raidue, di filmare un processo per stupro in Italia. Il documentario “Processo per stupro”, registrato al Tribunale di Latina, diretto da Loredana Dordi, fu seguito da nove milioni di telespettatori. Con il titolo inglese “A Trial for Rape” fu presentato al festival di Berlino, insignito del Prix Italia for documentaries e ricevette una nomination all’International Emmy Award. Se ne conserva oggi una copia al Moma di New York”
Era il 1979, entrando in un tribunale la Tv italiana aveva la pretesa di svolgere una funzione civilizzatrice del paese veicolando modelli culturali capaci di aprire spazi di libertà alle singole persone, e in parte ci riusciva.
Oggi, in tempi di videocrazia e donne farfalline e veline, sarebbe forse il caso che per difendere i diritti delle donne e un sano equilibrio tra i generi, portassimo questa volta la televisione e i media davanti al tribunale, ma quello della ragione. Come si va dal gommista quando c’è bisogno della convergenza, come si va dal meccanico quando il motore va fuori fase. (Le metafore volutamente maschili sono calibrate sui destinatari).

Un poetico requiem per Lucio Dalla di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 5 marzo 2012


La Chiesa aveva proibito le canzoni di Dalla al suo funerale, ma è successo di più, anzi di meglio: il suo compagno, in qualità di collaboratore (che escamotage intelligente e simpatico, degno della brillantezza di Dalla e della migliore goliardia bolognese) ha potuto leggere un testo del cantautore defunto, forse tra i più belli. Lo potete trovare su internet.

Il titolo “Le rondini” evoca già una leggerezza che fa invidia a qualsiasi uomo di Chiesa che si metta a commentare le parole del Cristo per spiegarci l’amore.

A me però, quando l’ho visto, ha ricordato un altro celebre e bellissimo poetico requiem (se così si può definire), quello dei famosi versi di Auden in un film memorabile…

Ammettiamolo: anche ai nostri occhi eterosessuali e “normali”, di chi ha il privilegio dell’aristocrazia dei sentimenti e dell’impunità della loro ostentazione, l’amore omosessuale davanti alla morte ha una tragicità maggiore e forse più autentica, specie se il contesto è una chiesa.

E’ un po’ la confessione di chi dice “fin qui, noi due, ce l’abbiamo fatta, nonostante tutto e tutti”. La testimonianza rara di un romanticismo eversivo.

Su, via, ammettiamolo: non ci fa vergognare dei tanti programmi televisivi pieni di vuote parole d’amore ronzanti come mosche?Delle stupide rime delle canzonette commerciali? Del pudore teorizzato, proclamato e sempre ipocritamente realizzato? Della banalità del chiacchiericcio sulle coppie che scoppiano e si riaccoppiano col solo gusto di poterne parlare davanti a una telecamera ?

Precari di tutto il mondo unitevi! di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 19 dicembre 2011


Sembrerà una semplice battuta, ma molto probabilmente sarà una delle più grandi novità dei prossimi tempi, forse addirittura del prossimo anno. Cosa? Il sindacato italiano dei precari, anzi dei freelance. Sull’esempio della Freelancer Union americana ideata da Sara Horowitz.
Alle 16.00 di oggi a Roma, presso lo spazio Porta Futura, via Galvani 108, durante la presentazione del libro la Furia dei Cervelli, di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, inizierà infatti la non facile gestazione per la nascita del sindacato italiano dei freelancer, dei freelance worker, insomma di quel sempre più numeroso esercito di lavoratori che vengono definiti “atipici”. Perlomeno da quando nel 1997 l’allora ministro del lavoro Tiziano Treu (oggi Pd), introdusse quelle forme contrattuali parasubordinate che hanno decretato l’inizio della flessibilità anche in Italia. Poi venne la riforma Biagi e quello che conosciamo bene. E oggi si contano più di sei milioni di unità. Per lo più giovani, ma non solo, che lavorano senza alcuna tutela e con una progettualità individuale minima. Vite tattiche all’insegna del rischio, verrebbe da dire.
All’appuntamento saranno presenti numerosi sigle e associazioni che già lavorano in questo senso, come Acta, Aiap, ma anche realtà come i ragazzi del Teatro Valle, che addirittura con la loro esperienza di occupazione sperimentale e creativa hanno ispirato un capitolo del libro di Ciccarelli e Allegri. Un saggio-inchiesta in cui i due giovani filosofi precari e fuori dal sistema accademico (sebbene vantino numerosi titoli anche con case editrici nazionali, a differenza di molti loro colleghi strutturati), tracciano le linee fondamentali di quello che ormai viene chiamato Quinto Stato e che si legge: precari intellettuali, lavoratori della conoscenza, produttori di competenze, operatori del sapere. Un libro che dà maggiore sostanza teorica al movimento degli indignados riportando al centro il tema cruciale e drammatico del lavoro e della sua rappresentanza politica e sociale.
Chi avrà avuto modo di andare su internet questi giorni avrà avuto anche modo di leggere uno statusalquanto significativo del Popolo Viola: “Nel 1997, quando introdussero in Italia la cosiddetta “flessibilità” del lavoro, ci dissero che era urgente e necessaria per creare occupazione per i giovani. Sono passati 14 anni, il lavoro non c’è e siamo tutti precari. Oggi ci dicono che è necessario fare di più, che occorre introdurre anche la libertà di licenziare per creare occupazione per i giovani. Sarà lecito avere dei dubbi?” Come dargli torto?

Gli indignados cileni e la voce di Camila di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 3 dicembre 2011


Camila Vallejo è la ventitreenne leader del movimento degli studenti cileni che da cinque mesi danno del filo da torcere al governo populista e di destra di Sebastián Piñera. Ma ormai è soprattutto uno dei volti simbolo di quel movimento globale che viene chiamato degli Indignados, e che va dai ragazzi di Occupy Wall Street, agli Indignados spagnoli ai nostri Draghi Ribelli. Tutti chiedono di rivedere gli effetti sociali devastanti del più spregiudicato neoliberalismo. Tutti dicono che si esce dalla crisi solo cambiando profondamente il paradigma delle nostre società. E tutti invocano questo cambiamento cominciando da maggiori possibilità per i ragazzi, per loro stessi, chiedendo una educazione gratuita, contrastando la mercificazione delle conoscenze e la diseguaglianza sociale. Combattono il capitalismo per umanizzarlo e impedire al mercato di trasformare in luogo di profitto ambiti e settori sociali che dovrebbero essere solo dei beni comuni: l’educazione, la sanità, le risorse, l’acqua in primo luogo, il futuro della comunità.
Stasera durante la trasmissione In Onda, condotta da Nicola Porro e Luca Telese, alle ore 20.30 su La7, verrà trasmessa una parte dell’intervista a Camilla Vallejo che ho realizzato con il fotografo e videomaker Luciano Usai.

L’oro di Chávez torna in Venezuela di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 30 novembre 2011


Le stime sono vaghe. Il governo venezuelano ha evitato accuratamente informazioni precise. Ma alcune fonti parlano di 16.908 lingotti d’oro, in casse da 500 chilogrammi l’una, per un totale di circa 30 tonnellate di oro, arrivate proprio qualche giorno fa all’aeroporto Simon Bolivar di Caracas. La maggior parte del metallo prezioso proverrebbe dall’Inghilterra, ma anche dalla Francia e da altri paesi, come il Lussemburgo e la Svizzera. Il comandante general Rangel Silva, del Comando Estratégico Operacional, che ha diretto l’operazione denominata “Oro Patrio”, ha illustrato nei dettagli l’eccezionale trasporto che è stato seguito con grande attenzione dai media venezuelani. Circa 500 uomini delle forze speciali, cinque mezzi blindati e diversi mezzi aerei, appositamente preparati, messi come scorta di una ineguagliabile ricchezza in movimento.
All’opinione pubblica sembrava quasi impossibile che Chávez potesse farlo davvero. Ma la decisione era stata presa già in agosto, quando il presidente firmò una legge che nazionalizza lo sfruttamento delle riserve aurifere del paese. In quell’occasione, Chávez aveva detto che a causa delle eccessive turbolenze economiche che affliggevano (e affliggono ancora) l’Europa, era giunto il momento di mettere in salvo “l’oro del nord” spostandolo in nazioni come la Russia, la Cina o il Brasile. I nuovi alleati del governo rivoluzionario del Venezuela.
Il presidente della Banca Nazionale, Nelson Merentes ha spiegato che quello di questi giorni è solo il primo cargo e che l’intera operazione dovrebbe far rientrare quasi l’ 85 % dell’intero tesoro in oro giacente nei depositi all’estero. Oltre al vantaggio finanziario, si tratta di un gesto che assume dei significati simbolici non da poco. Primo tra tutti, quello di una riparazione, di una ferita rimarginata. Come ha spiegato in più occasioni questa settimana lo stesso Chávez, “quell’oro non sarebbe dovuto mai uscire dal paese e farlo rientrare rappresenta innanzitutto un atto di riappropriazione per il popolo venezuelano”.

Il Cile e la “soap opera” della dittatura di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 19 ottobre 2011


A Santiago del Cile i ragazzi del movimento studentesco non fanno altro che parlare della serie televisiva Los Archivos del Cardenal, la cui ultima puntata è stata trasmessa qualche giorno fa. Per il Cile si riapre una delle più profonde ferite: quella delle violenza della dittatura. È la prima volta che le crudeltà del governo Pinochet vengono raccontate sul piccolo schermo e con uno stile nazionalpopolare, quasi fosse una soap opera. Dodici puntate seguitissime, anche se mandate in onda alle 11 sera e dopo vari tentativi di censura da parte della destra più estrema.
La fiction, che si può guardare interamente online, racconta la vera storia della Vicaría de la Solidaridad, una istituzione voluta dal cardinale Raúl Silva Henriquez, per conto della quale un gruppo di avvocati, intellettuali e preti cominciarono ad indagare sugli omicidi e sulle torture di stato all’indomani del golpe di Pinochet. Rischiando la propria vita e, in alcuni casi, perdendola.
“L’idea è nata è dalla sceneggiatrice Josefina Fernández, figlia di uno degli avvocati sopravvissuti della Vicaría, oggi quarantenne. Quattro anni di lavorazione poi finalmente la prima puntata questa estate. In perfetta e casuale coincidenza con l’inizio del movimento studentesco”, spiega il registaNicolás Acuña, anch’egli 40enne e lui stesso testimone di uno dei fatti di violenza raccontati nella serie. “Avevo 13 anni e dalla finestra della mia classe ho assistito al sequestro di due professori del partito comunista all’entrata della scuola. Vennero ritrovati sgozzati qualche giorno dopo. Era il 1985, gli ultimi anni della dittatura, ed è stato una specie di colpo di coda del regime. A questo episodio abbiamo dedicato l’ultima puntata”, proiettata in anteprima nell’arena del Museo della Memoria e alla quale erano presenti molti figli delle vittime. Terminata la proiezione, il pubblico, commosso, ha ricordato gli scomparsi, cantando canzoni di Victor Jara e rispondendo “presente!” ogni volta che la voce di un sopravvissuto invocava il nome e il cognome di un desaparecido.
Ma la cosa che più ha sorpreso è stata la grande presenza dei giovani del movimento. Forse più di seicento. Gli stessi che la mattina avevano sfilato pacificamente per le vie di Santiago rivendicando una educazione gratuita e un Cile più giusto. Come ogni giovedì da quattro mesi a questa parte del resto. “Le reazioni del pubblico alla nostra serie sono state le più disparate” precisa Acuña “e danno la misura di quello che è oggi il Cile. Ovviamente la destra pinochetista, al governo con Piñera, si è opposta in tutti i modi alla messa in onda. Come era ovvio. Ma la cosa più interessante è stata l’attenzione da parte del movimento e la grande voglia di questi ragazzi di fare i conti con il passato, di elaborare una volta per tutte il dramma collettivo della dittatura.
È come se oggi questa loro lotta fosse duplice e in entrambi casi contro due tremende eredità del regime di Pinochet. Su un piano concreto questi ragazzi vogliono cambiare il modello neoliberale che la dittatura ci ha lasciato e che è alla base della maggior parte delle ingiustizie sociali di questo paese. Su un piano simbolico vogliono risarcire il paese di tutta la violenza subita con Pinochet, restituendo un paese finalmente senza più paure. I fantasmi della repressione aleggiano ancora, e questi ragazzi hanno il coraggio di affrontarli. Penso che ci siano finalmente le condizioni di una vera e propria cultura della memoria.
Il mio prossimo lavoro? Una serie tv storica sulla conquista degli spagnoli, che racconti le violenzedei conquistadores sugli indigeni mapuche. Gli stessi che oggi subiscono le vessazioni delle multinazionali e dei capitalisti, a cui fanno gola le loro terre. Un’altra storia di violenze che non è non è mai terminata”.

Bersani, alla gente non interessa la “piattaforma” di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano.it il 15 ottobre 2011


Bersani definisce il movimento degli indignati confuso. Parla lui che per decidere se appoggiare lo sciopero ha chiamato la sibilla, oppure ha parlato a mezzo mondo di un porta a porta che non è mai arrivato. E come alternativa propone una piattaforma. Interessante. L’uso del termine piattaforma dà proprio la misura del linguaggio politico e dello stile politico da segreteria postsovietica di Bersani &C. Ma soprattutto di quanto questo stile sia lontano dalla politica della gente che Bersani  in fondo etichetta  come antipolitica, solo perché non ha imparato come lui ad obbedire ai diktat di segreteria.
Già perché per lui la politica, quella vera, è il partitismo amorale di Penati, le concettosità riverite del sempre bravo Cuperlo, i rinnovismi eternamente auspicati come tortelli mai cotti di Civati, la presentabilità recuperata da imprenditore amico di Colannino, oppure il ribelllismo-opportunismo della Serracchiani. Tutte soluzioni e posizioni  di amplissimo respiro ideologico, ci mancherebbe. Senza alcun dubbio, intellettualmente corrette e cool. Perché ad appartenere a quel mondo ci sente carini e fighetti, come se stessimo seduti sulla poltroncina dell’intervistato delle Invasioni barbariche..
Peccato che la gente però, che il “popolo profondo”, come ha detto efficacemente una voltaD’Alema, in un raro momento di lucidità e consapevolezza, quelle cose lì stenta a capirle. Come ha già intuito il buon Massimo, ma per antica sapienza tattica lo nasconde a sé stesso, la gente si stanca, e se si stanca eccede, perché la gente, il popolo, quello profondo, non si veste, non cammina, non mangia, non lavora, dopo aver elaborato una piattaforma, secondo la logica parademocratica e prundentista degli ex Ds in condominio con i democristiani. No, la gente piuttosto si stanca, si incazza e scende in piazza. E come diceva un vecchio compagno del Pci, negli anni settanta, la gente è una categoria prepolitica, nel senso che dà lì può nascere una nuova politica. E per questo andrebbe rispettata.

Se Il Male ispira la rivista degli indignados di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 13 ottobre 2011


Si chiama The Clinic e prende il nome dalla clinica londinese dove venne arrestato nell’ottobre 1998 Augusto Pinochet. E’ la rivista degli indignados cileni, anche se ormai è conosciuta in tutta l’America Latina. La più venduta del paese con 35 mila copie a settimana.

Satirica, irriverente, sempre contro tutti, governo e opposizione. Con una copertina arrivò persino a ironizzare sull’omosessualità di alcuni gerarchi della dittatura. Organizza eventi che fanno scandalo: come la prima gara nazionale di strip tease, vinta da un operaio. Ha un ristorante in franchising che è ormai uno dei luoghi di ritrovo dell’intellighenzia di Santiago. Dal suo esordio è sempre molto vicina a ogni movimento sociale, gay, ecologista, studentesco, a patto che porti un elemento di innovazione nella società. All’inizio dell’attuale protesta ha fatto uscire un numero speciale interamente scritto da un comitato editoriale composto da studenti.

Il direttore e fondatore, Patricio Fernández Chadwick, è un brillante quarantenne, con due romanzi al suo attivo, e che ha studiato storia dell’arte a Firenze. “Clinic nasce con pochi soldi come pamphlet. In parte mi sono ispirato alle riviste italiane Il Male e Cuore. Abbiamo sempre attaccato tutti con ironia: destra e sinistra. Oggi è l’unico giornale cileno vicino al movimento degli studenti. E l’unico di sinistra. Quello che sta succedendo in questi mesi in Cile è qualcosa di unico e molto interessante. É come un sessantotto. Con la sola differenza che gli obiettivi sono meno impossibili. I ragazzi stanno elaborando un modello nuovo di società per tutta l’America e anche una nuova sinistra, lontana dai vecchi schemi del novecento. E il bello è che tutto questo è possibile.”

Pensare la Resistenza, salvare la Resistenza di Manuel Anselmi | 25 aprile 2011


Ormai qualsiasi discorso sulla Resistenza ha sempre meno forza e stabilità di un tempo. Sembra quasi che debba necessariamente restare in bilico, su una soglia. Per dirla subito fuor di metafora: si ha come la percezione che il modo classico di pensare la Resistenza sia andato abbondantemente in crisi. La spinta eroica e monumentalistica della Resistenza ha perso l’intensità degli inizi. Oggi, il giudizio implicito di una certa indifferenza diffusa è che il valore sociale della Resistenza è non soltanto qualcosa di residuale e marginale, ma anche qualcosa che si colloca, nella potente e cinica costellazione delle categorie della società dello spettacolo e del consumo tecnologico, tra  il “demodé”, l’ “obsoleto” e il “datato”.
Viene pertanto da chiedersi come è possibile ripensare la Resistenza oggi? Anzi, come è possibile pensarla? Innanzitutto, come è stato fatto fino adesso. È giusto che si continui con la preservazione della verità storica della Resistenza. Però è pure giusto che alcuni stereotipi diffusi vengano contrastati.
Quando si discute di Resistenza oggi, è facile che vengano chiamate in causa per opposizione, altri episodi di violenza come le Foibe, o gli eccessi delle persecuzioni e delle vendette sui fascisti da parte dei partigiani dopo il 25 aprile. Di qui la fortuna di Giampaolo Pansa e il successo commerciale dei suoi libri.
Però è anche vero che questo genere di discorsi s’inquadrano all’interno di un ben preciso dispositivo, per molti versi fatale.
Quello di un congegno a somma zero, di una funzionalità quasi meccanica, in cui un’affermazione che va in un senso deve prevedere necessariamente un discorso opposto che la annulli, quasi fossero parti o forze che si devono bilanciare per il fatto stesso di appartenere alla logica generale che sovrintende il progetto del dispositivo. Questa concezione è alla base della mentalità, per esempio, degli opposti estremismi, tanto cara anche a certi studiosi del terrorismo e degli anni di piombo; oppure è il principio regolativo di certi dibattiti sicuramente rozzi ma di sicuro sempre più popolari e frequenti, su chi ha ammazzato più innocenti, o comunque ha sparso più sangue, in cui il criterio di validità dialettica è una sorta di bilancia del sangue o dei morti. Discorsi e dibattiti che conducono diretti al qualunquismo.
Potrà sembrare paradossale, strano e addirittura provocatorio, però per pensare la Resistenza oggi, dobbiamo partire dall’assunto che è stato un atto di violenza politica eccezionale a uno stato di negazione delle libertà altrettanto eccezionale.
La Resistenza è stato senza alcun dubbio un atto di violenza politica e come tale deve essere considerato. Ovviamente non per fare un elogio della violenza tout court, ma per la sua eccezionale necessità e natura. La Resistenza ha raggiunto determinati obiettivi proprio perché è stato un atto di lotta e la lotta, fino a prova contraria, è un atto di violenza politica. E se ci si dimentica l’unicità del valore del tipo di violenza politica che ha rappresentato, il suo significato storico sociale profondo, si annullano le differenze con la violenza politica nazifascista.
Non si può far finta che la lotta e la violenza a cui sono ricorsi i partigiani siano della stessa natura e siano interpretabili allo stesso modo della violenza politica dell’autoritarismo di un sistema dittatoriale, per il semplice fatto che sono state entrambe violenze. Una cosa è prendere le armi per ripristinare lo spazio legale della democrazia, all’interno del quale i cittadini recuperano i propri diritti e la possibilità di esprimere le proprie differenze entrando sì in contrasto, ma risolvendo i contrasti attraverso la mediazione politica. Un’altra cosa è usare la violenza per controllare il cittadino nella sua quotidianità, limitandolo con l’esercizio della paura e della prevaricazione autoritaria, aspetti costitutivi e fondanti, e non effetti collaterali, di un sistema autoritario e/o totalitario.
Bisogna recuperare l’orizzonte originario e autentico proprio della lotta partigiana. Si è combattuto perché alcune forme di violenza quotidiane, istituzionalizzate, burocratizzate, strutturate, non esistessero più. Questo forse è stato il grande risultato della violenza eccezionale a cui sono ricorsi i protagonisti della Resistenza: il conseguimento di uno status giuridico di legalità sociale. Istituire uno spazio delle libertà repubblicane e democratiche che per troppo tempo erano state limitate dal reticolo di violenze e di abusi della dittatura.
Capisco che può far strano, e in parte cozza con l’immagine della Resistenza fatta eroica ed edulcorata. Il fronte della Resistenza era costituito da giovani liceali e universitari idealisti, ma anche da persone semplici, da poveracci, da analfabeti che questa scelta eccezionale e tragica della violenza la condividevano profondamente. Persone che passavano alla lotta clandestina con la speranza che, fatto lo sforzo necessario, si tornasse quanto prima alla vita normale. Perché la violenza politica dei sistemi nazisti e dei sistemi fascisti era, invece, prassi burocratica, fredda e quotidiana funzione della governamentalità assoluta sul corpo delle persone. Più semplicemente: un governo della morte. Normalità della morte.

Obama e Cuba di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano.it il 27 gennaio 2011


Il 13 gennaio scorso, senza troppo clamore sulla stampa internazionale, il presidente Obama ha annunciato nuove misure in merito alle condizioni di viaggio e di invio di valuta dagli USA a Cuba, allo scopo di aumentare i contatti tra i due paesi nonostante l’embargo. Cosa che si è tradotta subito in una prima disposizione del presidente inviata sia al Ministero della Sicurezza Nazionale sia al Ministero del Tesoro sia al Dipartimento di Stato, in cui sono contenute significative riforme.
Con la motivazione di “aiutare gli sforzi di appoggio al popolo cubano e determinare così liberamente il suo destino, aiutandone direttamente la società civile”. Si è stabilita, per esempio, la possibilità di inviare cifre non superiori a 500 dollari ogni trimestre verso l’isola caraibica. Per l’amministrazione Obama in questo modo così si darà un significativo aiuto alla riunificazione delle famiglie cubane separate. Tuttavia non tutti i cubani residenti negli States potranno beneficiare dell’opportunità. Saranno, infatti, esclusi quelli che hanno un incarico politico di rilievo.
Le nuove misure prevedono anche una intensificazione, se non una vera e propria promozione degli scambi tra istituzioni scolastiche ed enti formativi, il riconoscimento dei crediti formativi per i corsi accademici, il sostegno di laboratori per la formazione professionale su territorio cubano e forme di sussidio per gruppi religiosi che vogliano stabilire con le comunità cubane forme di collaborazione e scambio.
Tutto ciò è stato in parte salutato come una prima forma di “disgelo” da parte degli States nei confronti dell’isola socialista, e in qualche modo è stato interpretato persino come l’inizio di una politica di sostegno per la sempre più prossima transizione postcastrista. Tuttavia il governo dell’Havana non si è astenuto dalle critiche. Raul Castro ha ricordato infatti che simili aperture c’erano state già sotto l’amministrazione Clinton per essere poi ritrattate da George Bush, ma che siamo ancora lontani da una revoca dell’embargo.
La situazione è perciò quanto mai aperta e indefinita, e queste prime mosse di Obama sembrano fatte proprio per indicare al governo cubano la via giusta per gettare le basi di una collaborazione tra i due paesi nella direzione del libero mercato.
E tutto ciò dopo che Fidel Castro, solo una settimana fa, ha ribadito che la recente storia di Cuba testimonia che l’America Latina non ha bisogno degli Stati Uniti. E mentre il sesto congresso del Partito comunista cubano, che si è tenuto sempre alcuni giorni fa, ha ribadito che non ci sarà mai una trasformazione capitalistica dell’isola. È proprio il caso di dire che il futuro della rivoluzione è sospeso tra utopia e realismo.

Il Chávez di Wikileaks di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano.it il 16 dicembre 2010


Anche i giudizi di Wikileaks sui leader sudamericani hanno fatto il giro del mondo. Secondo il Dipartimento Usa, Chávez sarebbe un “pazzo pagliaccio” che finanzia l’altro “pazzo” di Ortega e quell’ “ignorante” del presidente della Bolivia Evo Morales, che sarebbe affetto anche da una grave forma di tumore.

Pronta è stata la risposta del presidente venezuelano che ha chiesto le immediate dimissioni di Hillary Clinton e ne avrebbe auspicato pure un esame psichiatrico, come risposta al profilo psicologico della sua persona commissionato dagli Usa allo psichiatra Roberto De Vries e contenuto nel cablogramma ID:57629 del 22 marzo 2006.

In questo documento, il leader bolivariano viene descritto come invasato da una tendenza messianica, dotato di una intelligenza emotiva e di una grande capacità di manipolazione delle masse. In grado di interpretare il risentimento collettivo di una società in crisi e frammentata, ma anche instabile caratterialmente e irascibile appena le cose non vanno come lui vorrebbe. Secondo questo profilo, Chávez avrebbe creato un’immagine di sé vincente, con uno stile di parola “duro e veloce”, facilitato dal fatto di essere un meticcio, e quindi in grado di relazionarsi sia con i bianchi, sia con gli indigeni sia con i neri. La sua leadership sarebbe quella del decision maker, insomma del manager.

In un altro cablogramma viene invece ricostruita la nascita dell’ideologia di Chávez, sulla base della testimonianza della prima moglie di origine tedesca, Herma Marksman – oggi sua acerrima avversaria – che confermerebbe la vicinanza del giovane Chávez ai movimenti guerriglieri marxisti degli anni Sessanta e Settanta guidati da Douglas Bravo. Una specie di Che Guevara venezuelano, altrettanto e carismatico e mitico per la sinistra venezuelana. Tutte cose, a dire il vero, in parte già presenti in molti testi specialistici sul movimento bolivariano che però, nell’economia della comunicazione diplomatica statunitense, sembrano rientrare in una valutazione generale sulle possibilità di sviluppo della leadership di Chávez in tutta l’America Latina.

Infatti, i cablogrammi più interessanti sono quelli che riportano ripetuti e preoccupati giudizi del personale del Dipartimento Usa sugli appoggi finanziari e politici dello stato bolivariano venezuelano al Nicaragua e alla Bolivia. Chávez avrebbe offerto al governo di Evo Morales un sostegno concreto fatto di esperti di comunicazione per rafforzarne la leadership, lo avrebbe aiutato a consolidare il consenso nell’esercito e a sostituirne l’alto comando con militari più vicini all’ideologia bolivariana. Ma è sul piano economico che il Venezuela avrebbe avviato una strategia di aiuto al governo di La Paz, sostituendo progressivamente le proprie aziende con quelle nordamericane. Anche in questo, caso, al di là del foclore dei personaggi e del gossip, quello che gli Usa temono è un’unità politica ed economica dell’America Latina, sotto il simbolo di Bolivar. Il cortile di casa resta la preoccupazione maggiore per Washington.

Cuba tra turismo e crisi di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano.it il 7 dicembre 2010


Nonostante la crisi, a Cuba il turismo aumenta. E’ l’unico settore dell’economia dell’isola che cresce. La One (Oficina Nacional de Estadísticas), una specie di Istat locale, ha fatto sapere che nei primi dieci mesi del 2010 più di due milioni di persone hanno scelto il paese socialista come meta. Un 3,4% in più rispetto allo scorso anno. Un record assoluto.

Dato che conforta la costruzione spasmodica di alberghi e residence. Come il Meliá Buenavista, 105 camere, collocato su una isoletta davanti alla costa nord di Cayo Santa María. La venticinquesima struttura di questo genere della catena spagnola Sol Meliá. Per un totale di 10340 camere.

Un settore quello turistico che si conferma il traino dell’economia di un intero paese. Che, ad essere sinceri, dà solo segnali di crisi. Lo scorso 16 novembre il governo ha varato un programma per il risparmio energetico denominato “Llamado de ahorro” e finalizzato alla diffusione di una cultura energetica più responsabile. In concreto, si è trattato di un aumento di circa il 15% delle tariffe dell’elettricità. Che arriva dopo un aumento del 18% del gasolio nel mese scorso. Il governo cerca di fare cassa.

Segno evidente della crisi è pure la decisione annunciata da Raúl Castro di tagliare nei prossimi anni ben 500mila posti di lavoro statale. Il governo assicura che saranno previste delle forme di occupazione alternativa per i licenziati, soprattutto nel settore privato, e che quindi verrà rispettato un caposaldo dello stato socialista cubano: un lavoro per tutti. Di sicuro, questa maxi riduzione di impiegati è il segno di una inversione di tendenza delle logiche stataliste che hanno regolato fino ad oggi l’isola dei Castro. Bisognerà vedere se poi ci saranno i soldi per la conversione.

Alfredo Guevara, intellettuale molto vicino a Fidel, direttore del Festival del Nuevo Cine Latinoamericano de La Habana, ha definito la “destatalizzazione” della società una delle proposte più interessanti da parte del governo perché contribuirà a un “maggiore livello di indipendenza e maturità della società cubana rispetto alla tutela istituzionale statale”.

Di fatto, questi mesi sono stati contraddistinti da continue e significative riforme di tipo liberale. Per esempio, la liberalizzazione delle licenze dei venditori ambulanti dei mesi scorsi oppure l’annuncio della liberalizzazione delle vendite di materiale per l’edilizia, prevista per gennaio. Un passo fondamentale per questo settore, se si tiene conto che dai 7 prodotti odierni, si passerà a ben 144 prodotti che potranno essere venduti in punti vendita privati. Inoltre, dopo gli uragani degli anni passati, attualmente si stima un deficit di ben 600mila abitazioni per la popolazione. Insomma, si stanno gettando le basi di un vero e proprio mercato del mattone.

Queste riforme sono niente se si considerano quelle che si prevedono a partire dal 2011 per i prossimi cinque anni. Sono previsti tagli al sistema dei servizi sanitari, un vero e proprio fiore all’occhiello del sistema castrista. Allo stesso modo, verranno limitati i finanziamenti pubblici per l’educazione.

Ma è la notizia dell’eliminazione della libreta de abastecimiento: la tessera annonaria che ogni cubano possiede. Un’istituzione presente dal 1962. Uno dei cimeli della cultura rivoluzionaria. E che ormai ha più un valore simbolico che pratico.

In tutto ciò, il ritorno di questa estate di Fidel Castro assume sempre di più un senso diverso da quello che alcuni giornali hanno indicato come una semplice rivalità tra fratelli per la leadership. È invece il senso del ritorno di chi, con il suo comprovato carisma, vuole accompagnare il suo popolo lungo la transizione a un inevitabile sistema capitalista di libero mercato, cercando così di attutirne l’impatto, di salvare il salvabile della storia e della cultura socialista.

Castro ha ripreso con regolarità a scagliare i propri anatemi contro un capitalismo e un imperialismo nordamericano indifferente ai valori della persona. Questi giorni ha più volte attaccato Obama definendolo prima Re mago e poi incantatore di serpenti. Per via delle finte e solo proclamate rotture con la politica imperialista di Bush. Ma le parole di Castro si diffondono attraverso i media mentre i giovani cubani, quotidianamente, affinano l’hip hop e vengono scoperti da produttori stranieri. Mentre, come in questi giorni, si svolgono festival rock, dal titolo Rock Ciudad Metal, e sul quotidiano di Juventud Rebelde, compaiono liberamente descrizioni e interviste di una piccola Woodstock caraibica. Dopo che per anni la musica rock era stata proibita per gli effetti negativi sui ragazzi. Definiti diabolicamente “elvispreslianas”.

Chávez, autopsia della storia di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 15 ottobre 2010


Queste settimane post-elettorali in Venezuela sono state caratterizzate da uno strano clima di sospensione, da un certo disorientamento ma anche da tentativi di rilancio. Tutti si sono detti vincitori.

Indubbio è stato il risultato della coalizione di opposizione (Mesa de Unidad Democrática) che ha avuto ben 64 seggi. Ora vedremo se sarà in grado di fare un’opposizione veramente democratica, dal momento che gravano ancora i tentativi di golpe nell’aprile del 2002 e la diserzione delle elezioni del 2005. Comportamenti, sinceramente, poco democratici.

Il partito di Chávez, dal canto suo, ha ottenuto 96 seggi invece dei 110 sperati, e ha mantenuto indubbiamente il ruolo di prima forza politica. Il coordinatore della campagna elettorale dei bolivariani, l’ex ministro dell’educazione Aristobulo Isturiz, ha dichiarato che “Si tratta di un trionfo e che è sufficiente per difendere la leadership di Chávez. Anzi - ha aggiunto – con questa vittoria abbiamo la forza necessaria per avviare importanti cambiamenti strutturali”. Alcune mosse fatte dal governo in questi giorni, sembrano andare proprio in questa direzione.

Il presidente Chávez in pochi giorni ha stretto importanti accordi finanziari con il presidente russo Medvedev, ha avviato un programma finanziato per la realizzazione di comuni socialiste, e ha perfino siglato un accordo economico per saldare 90 milioni di dollari di debito con la Colombia. Ristabilendo così dei rapporti di scambio significativi, dopo i rischi di guerra degli ultimi mesi.

Tuttavia è sul piano simbolico e comunicativo che i bolivariani di Chávez devono riguadagnare terreno. Per Chávez sarà difficile ma necessario riottenere il consenso degli anni passati. Dovrà lavorare più che mai sull’immaginario dei venezuelani. Ristabilire un orizzonte di speranza. Fare leva sul nazionalismo e sul riscatto delle classi sociali più deboli. Alcuni piccoli fatti fanno supporre che in fondo una strategia di questo genere è in cantiere da un po’ di tempo.

Qualche giorno fa una breve nota di agenzia, di quelle che saltano agli occhi solo dei curiosi e si dimenticano subito come quasi tutte le curiosità, riportava la notizia della riesumazione dei due cadaveri delle sorelle dell’eroe Simòn Bolívar da parte di una équipe medica specializzata. Del tipo Csi o Ris, per intenderci.

L’attenzione dei media era troppo concentrata sui risultati delle elezioni parlamentari perché la notizia potesse avere il giusto grado di considerazione. Eppure, dopo quella delle spoglie dello stesso Bolívar, avvenuta nel luglio scorso, si tratta della terza riesumazione ordinata direttamente dal presidente Chávez. Con i resti delle sorelle Bolívar, questa équipe potrà adesso fare un confronto del Dna e svolgere esami tossicologici comparati, così da individuare le reali cause del decesso del celebre fratello. Lo scopo dell’operazione è dimostrare che l’eroe patrio non morì di tubercolosi ma venne avvelenato da una congiura ordita da oppositori, spagnoli e forze straniere coloniali.

Se fosse confermata questa ipotesi, Chávez e i suoi sostenitori troverebbero uno straordinario impulso per ribadire al popolo venezuelano e a tutti i popoli sudamericani molte delle loro semplici e più forti argomentazioni. Per esempio, che l’azione di controllo politico e sfruttamento economico dell’America Latina da parte di potenze straniere è una pratica geopolitica ormai secolare, ma soprattutto che stare dalla loro parte e combattere oggi con gli ideali della rivoluzione bolivariana vuol dire combattere contro questa secolare ingiustizia e continuare il processo di liberazione pan-sudamericano avviato da Bolívar. In questo caso non solo eroe, ma anche martire. E, ovviamente, Chávez suo erede legittimo.

Mentre invece se così non fosse, se l’équipe dovesse accertare un’altra causa di morte o semplicemente la versione della tisi, è più difficile prevedere come si comporterà il governo di Chávez. Magari nascondendo la notizia, di sicuro non enfatizzandola, verrebbe da dire con malizia. Vero è che tutte le azioni che prendono le mosse da presupposti ideologici e hanno una esplicita finalità ideologica mantengono sempre un carattere sospetto. Anche se la realtà delle cose sta dalla loro parte. Non ci resta che dire: staremo a vedere.

Di sicuro per noi, che in Europa siamo abituati a periodici dibattiti su foibe, negazionismi e revisionismi vari, è senz’altro interessante vedere che, anche in un contesto per così dire esotico, la verità storica resta sempre il boccone più ghiotto della politica.

Solo che alla ricerca d’archivio, alla storiografia e alle ricostruzioni documentali, alle interpretazioni dei fatti, in questo caso si è sostituito il coroner. Nella migliore tradizione dei polizieschi televisivi. E come sempre, il tutto dominato dalla categoria della suspense. Nella migliore tradizione della società globale dello spettacolo. Staremo a vedere.

L’hyperreality dei minatori cileni di Manuel Anselmi | Pubblicato sul sito del Fattoquotidiano.it il 10 settembre 2010


In principio era la realtà, poi venne il reality, e infine fu la volta dell’ hyper-reality. Al di là di ogni produzione televisiva, realizzato dalla natura con la solita complicità dei media per dimostrare che non sempre si lascia dominare dall’uomo.
La vicenda dei trentatré minatori cileni imprigionati a quasi settecento metri sottoterra ha assunto sin da subito i tratti di un grande spettacolo mediatico. Come era facile prevedere, del resto. Ogni minimo dettaglio, in superficie o in profondità, è oggetto di notizia, anzi di show. E di morbosa attenzione da parte del pubblico. Se volessimo lanciarci in previsioni e definizioni teoriche potremmo dire che questa vicenda probabilmente contribuirà alla nascita di una nuova forma di intrattenimento:Naturetainment? Disastertainment? Misftainment (misfortune entertainment)?Decidete voi. Qualcuno ricorda la tragedia del sommergibile russo Kursk? 118 uomini nel fondo del mare di Barents. Avrebbe potuto essere un antecedente di questo nuovo genere. In quel caso, però, l’insondabilità degli abissi non permise una cronaca dell’agonia dei poveri marinai. E un immaginario da guerra fredda avvolse tutta la storia, connotandola come l’ennesimo mistero militare. Era soltanto il 2000, il muro di Berlino era crollato da troppo poco, non c’era ancora l’Isola dei Famosi e il primo Grande Fratello sarebbe iniziato un mese dopo.
Il dramma della miniera di San José, nella regione settentrionale dell’Atacama, nel Cile del Nord,è cominciato il 5 agosto scorso, quando una frana li ha bloccati in profondità. I minatori sono riusciti a raggiungere un rifugio di emergenza, dove sono tuttora imprigionati: 50 mq circa e la temperatura che non scende sotto i 34°. La certezza che fossero ancora vivi però si è avuta solo il 22 agosto scorso, quando una sonda di circa dieci centimetri di diametro li ha raggiunti. A quel punto è stato possibile stabilire un contatto audio e video. Allora si è potuto mandare viveri, medicinali e altro ancora. E l’apparato mediatico globale è partito in tutta la sua potenza.
I network cileni ormai seguono ora dopo ora ogni minima evoluzione della storia. Approfondimenti continui sulla condizione dei pirquineros, così si chiamano i minatori della zona. Interviste a figli, mogli, fratelli, sorelle e cugini. Il quotidiano locale Chañarillo sul suo sito ha persino predisposto un sondaggio su quale dei tre piani di salvataggio A, B e C riuscirà per primo nel recupero. Nel frattempo sugli schermi, alle immagini spettrali dei volti bianchi dei minatori che emergono dalle tenebre, si alternano quelle delle famiglie in superficie che pregano, che fanno delle processioni, che si mettono a cerchio e si aiutano come in un gruppo di terapia. Rigorosamente sotto gli obiettivi dei fotografi e delle telecamere. Qualche giorno fa i famigliari hanno persino inscenato una protesta perché volevano inviare più lettere e poter parlare di più con i propri cari. Dei sotterrati si sa tutto, costantemente. Si sa se hanno mangiato e se hanno ancora fame. Chi ha il mal di denti e chi la dissenteria. Poi il commento passa a Micheal Duncan che coordina un equipe della Nasa, formata da due medici, uno psicologo e un ingegnere, proprio per far fronte alla condizione di isolamento dei trentatré, molto simile a quella degli astronauti. Duncan rasserena dicendo che verranno somministrati degli alimenti speciali per contrastare il deficit di vitamina d e dei particolari antidepressivi. Gli stessi usati nello spazio.
Il sentimento di unità patria si raccoglie nella tragedia. Se si alzano gli occhi tutt’intorno all’accampamento “Esperanza” (quale nome più azzeccato?), ci sono infatti bandiere del Cile. In fondo questo è pur sempre l’anno del bicentenario dell’indipendenza dalla dominazione spagnola.
Ad articolare il dramma collettivo nel quotidiano ci sono poi le singole storie. Una su tutte quella dell’ex calciatore della nazionale Franklin Lobos che ha fatto piangere la star del calcioZamorano: caduto in disgrazia, dopo aver fatto il tassista, per far studiare i suoi figli adesso rischia la vita nella dannata miniera.
Contro questo grande teatro mediatico si sono fatti sentire alcuni intellettuali. Come lo scrittore cileno Hernan Rivera, figlio di minatori e minatore lui stesso per venti anni, che dalle colonne del quotidiano spagnolo El País, il 1 settembre passato, ha mostrato tutta la sua contrarietà. “Questa tragedia, deve servire a sollevare la questione della condizione di lavoro dei minatori cileni e deve servire a proporre una nuova legge che regoli questo genere di occupazioni, non ad alimentare un reality show” ed ha aggiunto “In molti mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sui trentatré sepolti, ma la mia etica non lo permette. La mia etica è la mia estetica, e viceversa. E poi non sono così figlio di puttana da farlo”.

venerdì 12 ottobre 2012

Un autunno cruciale per Chavez, allievo di Castro di Manuel Anselmi | pubblicato sul sito del Fattoquotidiano il 31 agosto 2010



Il 25 agosto scorso il presidente venezuelano Hugo Chávez Frías è andato a fare visita a Fidel Castro all’Avana. Il primo incontro ufficiale da quando Fidel è ricomparso sulla scena. Come ai vecchi tempi, anche questa volta Chávez è tornato come un allievo torna dal maestro prima di un appuntamento importante, prima di una prova. Cinque ore intensissime se si considera la notoria loquacità degli interlocutori, in cui i due leader socialisti avrebbero discusso del rischio di guerra nucleare in Medio Oriente e dell’uscita del nuovo libro di Castro La contraofensiva estrategica, con il quale verranno svelati nuovi e importanti dettagli della battaglia per la cacciata del dittatore Fulgencio Batista. Ma è la politica interna che preoccupa maggiormente entrambi i leader: li aspetta infatti un autunno delicato e per Chávez addirittura cruciale.

Il prossimo 26 settembre in Venezuela si svolgeranno infatti le elezioni per rinnovare l’Asamblea Nacional, il parlamento venezuelano, un appuntamento che vede coinvolti quasi 2800 candidati e 87 circuiti elettorali in tutto il paese. Chávez ha lanciato una importante mobilitazione popolare, l’Operación demolición, coordinata da uno degli ideologi del movimento bolivariano rivoluzionario, l’ex ministro dell’educazione Aristobulo Isturíz. Il movimento chavista cercherà di ritrovare la spinta e il consenso degli inizi, dopo un semestre difficile tanto sul fronte esterno quanto su quello interno. Durante le primarie della primavera scorsa, all’interno del partito di governo si è svolto infatti un interessante quanto aspro confronto tra la base sociale e il gruppo dirigente. A ciò è seguita, negli ultimi mesi, la delicata crisi diplomatica con la Colombia che ha paventato seriamente la possibilità di una guerra con il paese confinante. Guerra che i sostenitori del presidente imputano a una strategia preparata ad arte, con la complicità della CIA, per avallare un imminente intervento militare statunitense nel paese. Guerra quasi inevitabile invece per gli oppositori, finché il governo bolivariano garantirà il suo appoggio al movimento rivoluzione delle F.A.R.C Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia .

L’opposizione venezuelana, dal canto suo, ha inaugurato la campagna puntando il dito, come sempre, sulla questione della libertà di stampa. Un problema, a dire il vero, controverso come molti aspetti dell’attuale situazione venezuelana, perché buona parte di quegli organi di stampa, specie televisivi, che denunciano l’attività repressiva del governo, sono gli stessi che hanno partecipato attivamente al colpo di stato contro Chávez nel 2002, fornendo in presa diretta delle versioni strumentali della vicenda. Ma probabilmente sarà la criminalità dilagante il tema principale su cui il fronte mediatico anti-Chávez avrà modo di insistere, come sembra di capire dalle prime esternazioni dei vari candidati. Vero è che se da un lato i programmi sociali (misiones) di riforma sanitaria ed educativi promossi dal governo costituiscono un indiscutibile risultato di inclusione sociale e politica (anche perché promossi con una chiara finalità ideologica), dall’altro lato non si può nascondere che le città venezuelane restano, dopo undici anni dall’inizio della rivoluzione, tra le più pericolose dell’America Latina. E come si sa, da un potere, forte o debole che sia, il cittadino chiede innanzitutto sicurezza.

A tutt’oggi è difficile fare un bilancio complessivo di un processo socialista che si continua a definire, per quanto non violento, rivoluzionario. Di fatto, anche alla vigilia di queste nuove elezioni, il Venezuela continua a mostrarsi un paese diviso a metà.

Nel frattempo a Cuba, sotto i soliti occhi vigili di Castro, tornato in parte per limitare le voci di una sua incombente fine, in parte per limitare il prestigio crescente del fratello Raúl, la Gaceta Oficial de Cuba riporta, quasi settimanalmente, piccole ma significative riforme, come quella della liberalizzazione del mercato dei venditori ambulanti di prodotti agricoli pubblicata dei giorni scorsi. Nel frattempo, al teatro Karl Marx dell’Avana, davanti a quasi mille persone, centinaia di cantanti cubani rendono omaggio con un concerto alla popstar americana Michael Jackson.